Io la conoscevo bene continua su questa scia ed è un film bello, anzi meraviglioso. E’ un altro ritratto di donna ed è anche – per impostazione, personaggi, ambienti, tematiche – una tipica commedia all’italiana, caratterizzata però da un veste formale di derivazione francese assolutamente inedita nel cinema italiano di quegli anni. Non c’è una trama dallo svolgimento lineare ma una struttura frammentata, “a mosaico”, dove le scene si susseguono senza un apparente ordine logico o cronologico e si procede per accumulo di episodi anche brevissimi.
E’ una scelta non fine a sé stessa ma indissolubilmente legata al soggetto. Io la conoscevo bene è il ritratto di una ragazza di vent’anni, Adriana, che ha lasciato la famiglia di contadini e si trasferita a Roma con generiche ambizioni di successo: la sua vita, che si svolge nella squallida periferia del “gran” mondo del cinema e della pubblicità, è una girandola disordinata e confusa di incontri, esperienze, legami, promesse e speranze che puntualmente si rivelano fallimentari. In tutto questo Adriana non perde mai la speranze né il sorriso sulle labbra. Il suo approccio alla vita è caotico e istintuale, le mille umiliazioni che subisce le scivolano sempre addosso senza lasciare traccia.
Questa almeno è l’impressione che abbiamo per quasi tutto il film: sarà il finale brusco e tragico (evidenti le analogie con un’altra grande commedia all’italiana, Il sorpasso, anche quella sceneggiata da Scola e Maccari) a imprimere una luce sinistra a tutta la vicenda. Ma già in precedenza alcuni episodi – l’incidente stradale all’inizio, la morte della sorella – si erano posti come inquietanti epifanie, segnali di morte nella frenetica giostra di canzonette, parrucche, balli e locali che costituiscono il mondo di Adriana.
Siamo, lo ripeto, nella più pura tradizione della commedia all’italiana, un genere che trae linfa comica dall’osservazione di una realtà amara e persino tragica e che ha sempre giocato sull’alternarsi (o reciproco rispecchiarsi) dei due registri. Ma il film di Pietrangeli va oltre: svela, come a nessun altra commedia è mai riuscito, il cuore oscuro di una società solo apparentemente spensierata che non esita a stritolare chi non ha il cinismo necessario per sopravvivere.
Adriana, vittima tutt’altro che incolpevole, attraversa il film con l’incoscienza e la cieca fiducia nel futuro di chi è troppo ingenuo per capire le implicazioni autentiche di un gioco più grande di lei. “Le va tutto bene. Non desidera mai niente, non invidia nessuno, è senza curiosità. Non si sorprende mai, le umiliazioni non le sente. Ambizioni zero, morale nessuno, neppure quella dei soldi perché non è nemmeno una puttana”. Il suo è senza dubbio uno dei personaggi femminili più complessi e indimenticabili del cinema italiano, splendidamente interpretato da una Stefania Sandrelli reduce dalle commedie di Pietro Germi e imposta da Pietrangeli contro il parere di tutti. Non meno accurata è ovviamente la descrizione del contesto sociale ed ambientale, ben esemplificato dal brulicare di squallida umanità che gravita attorno ad Adriana. Indimenticabile, pur nella sua fugace presenza, è il personaggio di Ugo Tognazzi nei panni di un attore d’avanspettacolo decaduto disposto a qualunque umiliazione pur di lavorare: lo spettacolino che improvvisa sopra il tavolo durante il party è una delle vette crudeli e patetiche del nostro cinema.
Il moralismo è in agguato, come sempre nella commedia all’italiana: ma Pietrangeli se ne tiene ben distante e, grazie allo stile frammentario e distaccato, riesce a mantenere uno sguardo in equilibrio fra il cupo pessimismo e la compassione nei confronti della sua sfortunata eroina.
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