Ford ha tenuto a precisare che non ha girato un “film gay”, e in effetti le intenzioni sembrano molto più ambiziose. Non si parla tanto di omofobia e minoranze (argomenti che vengono comunque accennati) ma di temi universali come il dolore, l’amore, la solitudine: il protagonista, un uomo che nasconde il proprio collasso emotivo dietro la maschera grigia dell’insegnante irreprensibile e abitudinario, compie un percorso di rinascita e di salvezza interiore che passa attraverso l’elaborazione del lutto, il confronto con gli altri personaggi e la speranza, sia pure accennata, di una nuova relazione.
L’ambientazione nei primi anni sessanta – immancabili i riferimenti a Kennedy, Cuba, la guerra fredda, la baia dei porci – vorrebbe forse suggerire echi e paralleli fra la crisi personale di George e quella pubblica di un’America che vive nel terrore del futuro e delle testate nucleari, ma sembra anche un richiamo evidente al melodramma classico di tradizione sirkiana, peraltro riecheggiato anche nelle musiche, nella trama, nella fotografia, nella patina sgargiante e artificiosa dell’insieme.
Il problema è che, a differenza dei melò di Douglas Sirk, nel film di Tom Ford non c’è anima e non c’è passione: difetto non da poco, in un’opera che vuole soprattutto parlare di sentimenti. Sono certamente da elogiare la freddezza e la misura con la quale il regista esordiente si è accostato al soggetto, ma l’impressione che se ne ricava non è tanto quella di un pudico rigore, quanto di un’asettica levigatezza da paginone pubblicitario di Vogue.
Nel tentativo di dare concretezza al dramma del protagonista, la regia di Ford si concentra su corpi, oggetti, ambienti e suoni; “disegna” le inquadrature con un’attenzione maniacale al dettaglio; organizza il décor con certosino scrupolo filologico: ed è tutto perfetto, tutto impeccabile. Come sono impeccabili gli attori: l’incensatissimo Colin Firth, effettivamente ammirevole nella sua recitazione intensa e trattenuta, il bel faccino sensuale di Nicholas Hoult (Tony del telefilm Skins), e la sempre splendida e cotonatissima Julianne Moore, volenterosamente impegnati a conferire anima a personaggi alquanto stereotipati.
Ma di fronte a tanta profusione di stile l’emozione è carente, la trasposizione corretta e nulla di più. Difficile, del resto, trovarsi in sintonia con un’estetica tanto leccata e pulitina, fra flash-back in bianco e nero, bagni in mare al chiaro di luna, ralenti di pettorali sudati e, ovviamente, tanti tanti abiti firmati dallo stesso Tom: roba che manderà in brodo di giuggiole designer, grafici e cultori della moda, ma lascerà probabilmente freddini coloro che dal cinema si aspettano, oltre la calligrafia, anche qualche barlume di vita.