Una mole considerevole di analisi, recensioni, dissertazioni, polemiche e disquisizioni (anche da parte di intellettuali che in genere poco si cimentano col cinema) è già fiorita intorno a un film di cui peraltro si parlava già da anni prima dell’uscita. Le aspettative erano imponenti, l’hype martellante. Ad alimentarlo hanno contribuito le dichiarazioni ambiziose di James Cameron, le monumentali spese sostenute per la realizzazione (“il film più costoso della storia del cinema!”) e soprattutto un precedente talmente ingombrante da stagliarsi come pietra di paragone imprescindibile: quel fortunatissimo Titanic che, a fine anni novanta, ha ridefinito il concetto stesso di film “popolare”.
Proprio questo va tenuto presente nel cinema di Cameron: la fusione fra l’approccio smisurato, colossale, griffithiano del regista-demiurgo e la sua vena squisitamente popolare. Le disquisizioni cervellotiche poco c’entrano con la sostanza della rivoluzione che, indubbiamente, Avatar rappresenta (anche, sia detto per inciso, a livello di incassi, che si sono immediatamente rivelati stratosferici: la scommessa è stata già economicamente vinta). Avatar è un film dalla struttura semplice, canonica, magari rozza, di certo estremamente derivativa ma non per questo banale. In esso confluiscono tantissime influenze disparate che sarebbe arduo elencare esaustivamente. C’è il western, c’è Pocahontas, c’è Balla coi lupi, c’è il ricordo lontano del Vietnam e quello ancora vivo dell’11 settembre, c’è Star Wars, c’è Blade Runner, c’è Sigourney Weaver, c’è la realtà virtuale e c’è tanto altro ancora. C’è, in una parola, il cinema hollywoodiano di sempre, con le sue regole e la sua morale, intelligentemente riletto alla luce dello zeitgeist contemporaneo (l’ecologismo, il misticismo new age, l’anticolonialismo) ma in sostanza tutt’altro che capovolto nei suoi valori di fondo: alla fine, i buoni trionfano sui cattivi a suon di esplosioni e ammazzamenti.
Ecco, forse tutta la seconda parte del film – quella della battaglia – suona un po’ troppo insistita e rumorosa almeno per chi non ha particolare simpatia per il genere, e comunque perdente rispetto all’incantamento new age della prima parte, dove il protagonista (e con lui lo spettatore) viene introdotto nel mondo immaginifico di Pandora. Quello che conta, in ogni caso, è che la storia sia bella, che lo spettatore si appassioni e che faccia il tifo per i buoni: non è forse questo l’obiettivo primario del cinema popolare?
La portata innovativa di Avatar dunque non sta nella trama e non sta nel “messaggio”, ma altrove: nel lato tecnico; nell’utilizzo della visione in 3D; nella padronanza oramai straordinaria del digitale e della performance capture. Tutti elementi con i quali Cameron è riuscito a ricreare, in pieni anni 2000, quella magia della visione che pervadeva il cinema degli esordi. E’ sulla base dello sforzo mastodontico che lo stesso Cameron si è sobbarcato per elaborare i nuovi mezzi che è stato possibile visualizzare Pandora, il pianeta popolato da creature aliene straordinarie dove lo spettatore può addentrarsi (quasi letteralmente, ormai) con lo stesso attonito stupore dei personaggi. Mai come adesso la nuova tecnologia del cinema (compreso il 3D, anche se per ora a livello embrionale) ha cessato di essere un orpello aggiuntivo per diventare un arricchimento sostanziale che aggiunge ulteriori potenzialità alla settima arte: solo fra qualche anno potremmo dire se la rivoluzione in corso sia davvero paragonabile a quelle storiche del sonoro e del colore. Se così sarà, allora Avatar potrà essere considerato l’opera che davvero ha traghettato il cinema verso uno stadio nuovo.
In tutto questo a poco giovano le lamentele di chi (Roberto Faenza su Repubblica) polemizza contro il cinema tecnologico e digitalizzato degli studios americani contrapponendogli l’umanesimo delle cinematografie europee o asiatiche. A certe rozze schematizzazioni si può rispondere con un altrettanto elementare ovvietà: che il cinema, forma d’arte impura per eccellenza, da George Méliès in poi è stato anche intrattenimento, meraviglia, ricchezza di effetti spettacolari. James Cameron – insieme ad altri registi, magari meno abili e di certo meno folli e ambiziosi – è semplicemente figlio ultimo di questa tendenza. Plaudire alla sua colossale creatura non è certo incitare ad una presunta “disumanizzazione” del cinema, ma semplicemente riconoscere che fare cinema significa anche incantare e sedurre gli spettatori con la forza, sia pure ingenua, dello spettacolo: che male c’è?
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