Ripulita dai cascami melodrammatici e decadenti, la storia della diabolica danzatrice di flamenco Conchita, che tiranneggia il ricco e maturo vedovo Don Mateo con la promessa sempre disattesa di concedergli la propria verginità, trova un'inaspettata consonanza con l’universo poetico del regista: come nel precedente Fascino discreto della borghesia il meccanismo si basa sulla reiterazione di un atto mancato, in questo caso il rapporto sessuale che la giovinetta continuamente rimanda “a dopodomani”.
L’ambientazione moderna, fra le bombe e gli attentati terroristici compiuti da un fantomatico “gruppo armato del bambin Gesù, è l’occasione per il vecchio regista di irridere un mondo divenuto ormai più assurdo di qualunque delirio surrealista. Il personaggio tipicamente bunueliano del vecchio hidalgo erotomane Mathieu (ineccepibile interpretazione del solito Fernando Rey), è emblema dell’immutabile destino umano alla sconfitta e alla frustrazione.
L’oggetto del desiderio, oltre che irraggiungibile, è oscuro perché inconoscibile. Il personaggio di Conchita è stato affidato (dopo il licenziamento di Maria Schneider) a due attrici dai tratti e dal temperamento opposti, la sanguigna Angela Molina e la più aristocratica Carole Bouquet: una felicissima intuizione che trasferisce sul piano visivo l’ambiguità del personaggio, e della realtà. La natura di Conchita resta indefinibile, ora santa ora puttana, e i nodi non vengono mai sciolti: è davvero vergine? Ama Mathieu o lo sta usando?
Disseminato di echi surrealisti, simboli, provocazioni, sberleffi (le secchiate d’acqua che aprono e chiudono il lungo flash-back centrale), Quell’oscuro oggetto del desiderio è leggibile in chiave psicanalitica (l’onnipresente simbologia sessuale), in chiave di irrisione antiborghese (frutto di una cultura materialista, Mathieu non riesce a stabilire con Conchita altro rapporto che non sia quello di possesso) o come allegoria dei rapporti umani (lo scontro fra i sessi cela il morboso desiderio di dominio l’uno sull’altro).
La ricchezza e la varietà dei livelli di lettura non pregiudicano peraltro il brio e la leggerezza di un film godibilissimo anche senza esasperati sforzi interpretativi. Lo stile terso, cristallino, elegantemente freddo (mai una sottolineatura di troppo, mai un eccesso d’enfasi) del Bunuel ultima maniera lo rendono anzi uno dei suoi film più trasparenti e intellegibili, sebbene non ai livelli (eccelsi) del Fascino.
Il finale è un’esplosione. Il vecchio surrealista anarchico non poteva trovare modo migliore per congedarsi (definitivamente) dal pubblico.
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