Un classico esempio di thriller alla Mario Bava, centrato su un intrigo tanto complicato quanto inverosimile, dove i personaggi vengono fatti fuori come mosche l’uno dopo l’altro. Gli elementi più appariscenti (la violenza gratuita e quasi splatter, il numero eccessivo di omicidi) costituiranno fonte di ispirazione per schiere di registi come Dario Argento e lo Sean S. Cunnigham di Venerdì 13 (dove la scena dell’impalamento dei due amanti viene citata alla lettera), ma praticamente nessuno saprà riprodurre lo spirito sarcastico e la cattiveria di Mario Bava, regista la cui vera forza stava, per usare le parole di Alberto Pezzotta, nel “non rispettare le regole”, perfino quelle che ancora dovevano essere codificate.
Reazione a catena è uno spettacolare esempio di thriller che manda all’aria ogni convenzione, accentuando al massimo l’elemento che già caratterizzava precedenti opera di Bava come Sei donne per l’assassino, cioè la mancanza totale di coordinate morali.
Il racconto non ha un polo positivo e uno negativo: da un lato, la presenza della polizia o comunque di personaggi che dovrebbero ristabilire l’ordine è completamente azzerata; dall’altro, nemmeno la figura dell’assassino può dirsi univoca: al posto del classico killer, qui abbiamo un’accozzaglia di sgradevoli personaggi che vestono alternativamente il ruolo di vittime e di carnefici. Il movente che li spinge a uccidersi l’un l’altro è la brama di denaro (alla base di tutto sta la lotta per il possesso della baia lacustre sulla quale è ambientata la vicenda): e si potrebbe discutere su quale sia il reale atteggiamento con cui Bava guarda ai suoi meschini e avidi protagonisti, se quello di un sarcastico moralista o di un divertito entomologo alle prese con degli scarafaggi – insetti che, fra l’altro, compaiono più volte nel corso della pellicola. Di certo non fanno difetto al regista l’ironia e la voglia di non prendersi troppo sul serio, come dimostra l’inaspettato e molto divertente finale, che chiude in chiave di assurdità una vicenda già ampiamente tenuta sul filo dell’assurdo.
Certamente troppo meccanico e programmatico nel suo svolgimento (il soggetto originale è dello specialista Dardano Sacchetti), Reazione a catena è tuttavia affascinante per come la corda della razionalità venga tesa fino allo spasimo senza essere spezzata. Se le trame di Dario Argento sono deliranti in quanto prive di logica, in Bava si ha l’opposto: i suoi film sono deliranti perché esasperano fino allo spasimo la razionalità e la meccanicità dell’intreccio, tanto che i suoi personaggi, pur essendo sempre ben caratterizzati, sembrano perdere ogni connotazione umana per trasformarsi soltanto in pedine di un folle gioco al massacro.
Ma Reazione a catena conta anche, e soprattutto, per lo stile libero e personalissimo del suo regista, capace di spiazzare di continuo lo spettatore con uso massiccio ma mai invadente di zoom, soggettive e immagini sfocate, dimostrando inoltre una cura nella costruzione delle inquadrature che non è certo da cinema di serie B. Anche se privo delle scenografie barocche e dell’uso espressionista del colore che rendevano Sei donne per l’assassino il vero capolavoro del thriller baviano (nonché punto di partenza imprescindibile per analoghe invenzioni argentiane), il film ha una bella fotografia tenue che ben si adatta all’atmosfera della baia, sulla quale risalta con più evidenza il rosso acceso del sangue che scorre a litri.
Sin dal meraviglioso incipit, che mostra l’assassinio in un pomeriggio di pioggia dell’anziana contessa paralitica interpretata da Isa Miranda, Bava gioca sul contrasto fra la limpida e incontaminata ambientazione naturale e la brutale ferocia degli uomini che la abitano. L’abbinamento delle immagini all’ evocativa colonna sonora di Stelvio Cipriani (che alterna i suoni frenetici delle percussioni a quelli delicati del pianoforte e degli archi) riesce a toccare vertici di autentica poesia e lirismo, decisamente inconsueti in un horror, a testimoniare la sfrenata creatività di un regista ancora oggi molto meno conosciuto di quanto dovrebbe.
Il racconto non ha un polo positivo e uno negativo: da un lato, la presenza della polizia o comunque di personaggi che dovrebbero ristabilire l’ordine è completamente azzerata; dall’altro, nemmeno la figura dell’assassino può dirsi univoca: al posto del classico killer, qui abbiamo un’accozzaglia di sgradevoli personaggi che vestono alternativamente il ruolo di vittime e di carnefici. Il movente che li spinge a uccidersi l’un l’altro è la brama di denaro (alla base di tutto sta la lotta per il possesso della baia lacustre sulla quale è ambientata la vicenda): e si potrebbe discutere su quale sia il reale atteggiamento con cui Bava guarda ai suoi meschini e avidi protagonisti, se quello di un sarcastico moralista o di un divertito entomologo alle prese con degli scarafaggi – insetti che, fra l’altro, compaiono più volte nel corso della pellicola. Di certo non fanno difetto al regista l’ironia e la voglia di non prendersi troppo sul serio, come dimostra l’inaspettato e molto divertente finale, che chiude in chiave di assurdità una vicenda già ampiamente tenuta sul filo dell’assurdo.
Certamente troppo meccanico e programmatico nel suo svolgimento (il soggetto originale è dello specialista Dardano Sacchetti), Reazione a catena è tuttavia affascinante per come la corda della razionalità venga tesa fino allo spasimo senza essere spezzata. Se le trame di Dario Argento sono deliranti in quanto prive di logica, in Bava si ha l’opposto: i suoi film sono deliranti perché esasperano fino allo spasimo la razionalità e la meccanicità dell’intreccio, tanto che i suoi personaggi, pur essendo sempre ben caratterizzati, sembrano perdere ogni connotazione umana per trasformarsi soltanto in pedine di un folle gioco al massacro.
Ma Reazione a catena conta anche, e soprattutto, per lo stile libero e personalissimo del suo regista, capace di spiazzare di continuo lo spettatore con uso massiccio ma mai invadente di zoom, soggettive e immagini sfocate, dimostrando inoltre una cura nella costruzione delle inquadrature che non è certo da cinema di serie B. Anche se privo delle scenografie barocche e dell’uso espressionista del colore che rendevano Sei donne per l’assassino il vero capolavoro del thriller baviano (nonché punto di partenza imprescindibile per analoghe invenzioni argentiane), il film ha una bella fotografia tenue che ben si adatta all’atmosfera della baia, sulla quale risalta con più evidenza il rosso acceso del sangue che scorre a litri.
Sin dal meraviglioso incipit, che mostra l’assassinio in un pomeriggio di pioggia dell’anziana contessa paralitica interpretata da Isa Miranda, Bava gioca sul contrasto fra la limpida e incontaminata ambientazione naturale e la brutale ferocia degli uomini che la abitano. L’abbinamento delle immagini all’ evocativa colonna sonora di Stelvio Cipriani (che alterna i suoni frenetici delle percussioni a quelli delicati del pianoforte e degli archi) riesce a toccare vertici di autentica poesia e lirismo, decisamente inconsueti in un horror, a testimoniare la sfrenata creatività di un regista ancora oggi molto meno conosciuto di quanto dovrebbe.
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