All’origine ci sono i toni cupi e cimiteriali di Daphne Du Maurier, la scrittrice inglese le cui opere hanno ispirato ben tre film di Alfred Hitchcock. Nel 1973 Nicolas Roeg – stimatissimo direttore della fotografia con Corman, Lester, Truffaut nonché regista in proprio a partire da Sadismo (1970) – si serve di un suo racconto per imbastire questo psico-thriller dai risvolti paranormali, stilisticamente raffinato, complesso come un puzzle, destinato a diventare un piccolo classico del genere e a esercitare una sotterranea ma inconfutabile influenza su schiere di registi in tutto il mondo.
Don’t look now (il titolo italiano è un brutto cimelio trash dell’epoca…) ha una trama tanto lineare quanto indecifrabile. I coniugi inglesi John e Laura Baxter hanno subito la perdita della figlioletta in un incidente e si sono trasferiti a Venezia per elaborare il lutto. La presenza di una veggente cieca che predice a John una brutta fine, le apparizioni di una misteriosa bambina in impermeabile rosso, una strana catena di delitti e soprattutto le paranoie e le angosce dei due malcapitati faranno lentamente precipitare la situazione verso un finale fra i più scioccanti della storia del cinema.
Il tutto sullo sfondo di una Venezia mai così intricata e plumbea, dove i vicoli bui, le calli decrepite, le chiese abbandonate sembrano l’inquietante materializzazione dell’inconscio turbato dei protagonisti.
Da Powell e Pressburger su su fino a Russell, Jarman, Greenaway, nel cinema britannico c’è sempre stata questa bizzarra linea di autori che – quasi in opposizione allo spirito inglese, proverbialmente compassato e grigio – si sono dedicati a un cinema in varie forme visionario, perverso, barocco, eccessivo. Roeg, che fa parte a pieno titolo di questa tendenza, ha trasformato così la ghost story della Du Maurier in un’autentica esperienza sensoriale, non per tutti i gusti ma di certo unica nel suo genere.
La forza del film sta nell’aver caricato gli eventi – pochi – della trama di un’indecifrabilità allusiva e misteriosa, che rimanda continuamente a un qualcos’altro che però nemmeno il finale shock svelerà a pieno. Le ellissi, i buchi narrativi, le false piste di cui è costellato il film sembrano fare di tutto per scoraggiare un’interpretazione razionale.
D’altro canto, l’uso originale, spiazzante, quasi subliminale del montaggio suggerisce di continuo connessioni, interpretazioni, rimandi, premonizioni (si veda il leit-motiv del colore rosso) che fanno di Don’t look now una specie di puzzle dove sta all’intelligenza dello spettatore rimettere insieme le varie tessere. Il rischio dell’intellettualismo è sempre in agguato: ma è difficile rimanere indifferenti di fronte a uno stile di regia tanto creativo e inconfondibile, capace di costruire un’atmosfera di tensione ininterrotta senza ricorrere agli effettacci e alla violenza.
Ben interpretato da due ottimi attori come Julie Christie e Donald Sutherland – protagonisti di una scena di sesso all’epoca molto chiacchierata, che però è una delle migliori mai viste al cinema –, il film resta fra le cose più riuscite di Nicolas Roeg e di un genere, il thriller, negli anni settanta davvero al culmine. Inevitabile poi domandarsi se certe invenzioni successive di venerati maestri come Dario Argento o David Lynch non derivino proprio da questo titolo.