venerdì 26 marzo 2010

Alice in Wonderland (USA 2010) di Tim Burton

Era nata sotto ottimi auspici, questa nuova trasposizione cinematografica delle avventure di Alice. Nessuno più di Tim Burton sembrava adatto al progetto, considerando le non poche affinità fra l’universo poetico del regista di Burbank e i celeberrimi libri per l’infanzia di Lewis Carroll (Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio). Aggiungendo la presenza di attori bravi e carismatici (Johnny Depp, Helena Bonham Carter, Anne Hathaway) e di una tecnologia 3D oramai tanto sofisticata da favorire letteralmente l’immersione nell’universo fantastico di Carroll, il capolavoro sembrava assicurato. E invece.

E invece questo Alice in wonderland è un film mediocre, freddo ed incerto: segno evidente che non basta radunare in campo tutti gli elementi giusti, se poi manca quella scintilla particolare capace di trasforma un capolavoro “sulla carta” in un film effettivamente bello.

La protagonista è un’Alice di vent’anni pensierosa, intellettuale e poco a suo agio fra il conformismo e le ipocrisie dell’aristocrazia ottocentesca. Promessa spesa ad un giovane di nobile lignaggio ma di scarsa attrattiva, Alice “evade” dalla festa di fidanzamento che le hanno organizzato e inseguendo un coniglio in doppiopetto si ritrova catapultata nello stesso fantomatico universo che popola i suoi sogni. Qui, con l’aiuto di alcuni bizzarri personaggi – il Cappellaio Matto, il Bianconiglio, il Brucaliffo… – sconfiggerà il mondo dalla tirannia della malvagia Regina Rossa e riporterà sul trono la più mite Regina Bianca.

Oltre ad alcune sorprendenti cadute di stile (la “deliranza” ballata da Johnny Depp, l’orrido epilogo), Alice in wonderland ha un vero, grande difetto di fondo: cioè che viene tradito lo spirito inconfondibile dello scrittore inglese (e fin qui nulla di male) e sostituito non dall’altrettanto personale impronta di Tim Burton (che è assente), ma da una morale e uno svolgimento che sono quanto di più convenzionale e canonico ci sia, a metà strada fra le banalità disneyane, la storia di formazione e il fantasy stile Signore degli anelli.

Di Carroll, del suo spirito iconoclasta, caotico e razionalmente nonsense, non c’è traccia. Lo stesso film Disney degli anni cinquanta era, da questo punto vista, decisamente più coraggioso e fedele al modello. La sceneggiatrice Linda Woolverton (La bella e la bestia, Mulan) ha attinto ad entrambi i romanzi ed ha rielaborato gli spunti in un banalissimo intreccio fantasy pieno di stereotipi (l’eroina predestinata, il mostro da sconfiggere, il trionfo finale del bene sul male), sconfinando in un territorio che col geniale caos di Lewis Carroll non ha proprio niente a che vedere.

Di Burton si scorge qualche traccia nei momenti più grotteschi e bizzarri, negli sporadici lampi di violenza e malinconia, e soprattutto nel tratteggio del personaggio di gran lunga più interessante del film: la Regina Rossa dalla testona sproporzionata interpretata da Helena Bonham Carter. La realizzazione dell’universo fantastico, pur se condotta con un estro figurativo fuori dal comune, non ha molto a che vedere con le genialità scenografiche a cui ci ha abituato il Burton più genuino, finendo per risolversi in una mera riproposizione delle invenzioni già viste nel classico Disney anni cinquanta.

Per il resto, non solo non c’è traccia (con la parziale eccezione della Regina Rossa) di quella poetica degli emarginati e degli outsider a cui il regista ci ha abituato da sempre, ma la stessa opposizione fra il variopinto universo fantastico e la grigia realtà quotidiana – che sulla carta era l’affinità maggiore fra Carroll e Burton, foriera di possibili interessanti sviluppi – resta un elemento dalle implicazioni non chiare, perfino gratuito. Che senso ha evidenziare le implicazioni libertarie e protofemministe dell’eroina se poi, una volta catapultata nell’altro universo, Alice si ritroverà a combattere per l’affermazione dei valori convenzionali e dello status quo (la leziosa Regina Bianca) contro un’emarginata autentica come la Regina Rossa? Che senso ha suggerire una lettura psicanalitica – i due mondi si rispecchiano l’uno nell’altro, o meglio sono l’una la versione deformata dell’altro, e vivendo la sua avventura Alice non fa che affrontare i mostri dell’inconscio – se poi pure questa non viene sviluppata fino in fondo, ma solo vagamente accennata nel finale?

Resta la delusione per un prodotto che avrebbe potuto imprimere una svolta decisiva non soltanto allo sfruttamento della tecnologia tridimensionale – assolutamente insufficiente, indegna del prezzo maggiorato del biglietto – ma anche alla carriera di Burton, da troppi anni adagiato sugli allori di operazioni commercialmente sicure ma ben distanti dalla magia e dal pathos di film come Edward mani di forbice o Nightmare before Christmas.

Shutter Island (USA 2010) di Martin Scorsese

Non c’è niente di male se Martin Scorsese, alla soglia dei settant’anni e dopo una carriera quarantennale fra le più impressionanti del cinema americano, vuole togliersi lo sfizio di conquistare le grandi platee e fare grandi incassi. I suoi film degli anni 2000, da Gangs of New York in poi, erano dei palesi tentativi in tal senso, coronati da un successo di pubblico via via crescente. Con Shutter Island, che ha già fatto sfracelli al botteghino americano e sta andando benissimo un po’ ovunque, l’obiettivo può dirsi pienamente raggiunto.

Non si deve moraleggiare troppo sulla svolta commerciale del grande Martin, ma nemmeno arrampicarsi sugli specchi per individuare, in questo Shutter Island, abissi di profondità inesistenti. Lo spettacolo allestito con grande maestria dal regista, assistito da illustri collaboratori come Dante Spinotti alle scenografie e Robert Richardson alla fotografia, è un esempio di intrattenimento sfarzoso, emozionante, teso, inquietante, avvincente: un ottimo film di genere – ma di un genere ondivago e poco definibile, fra il gotico e il thriller psicologico – condotto più con la furbizia dell’artigiano che con il genio dell’Autore.

Leonardo Di Caprio, non più efebico come negli anni novanta ma sempre un po’ troppo bamboccione per essere pienamente convincente, si impegna al limite delle sue possibilità in un ruolo complicato e ambiguo, al centro della storia sceneggiata da Laeta Kalogridis e tratta da un romanzo di Dennis Lehane (l’autore di Mystic River). Questo Teddy Daniels è un agente federale dal passato burrascoso, che ha perso la moglie (Michelle Williams) in un incendio e ha visto cose terribili a Dachau dove ha partecipato alla liberazione dal nazismo. Adesso – siamo nel 1954 – Teddy e il collega Chuck (Mark Ruffalo) si trovano a indagare su un caso di sparizione avvenuto nel sinistro manicomio criminale di Ashecliff, che sorge in un’isola al largo di Boston. Bloccato qui per via di un uragano, Teddy si convince che qualcosa di molto inquietante sta accadendo nell’ospedale: forse degli indicibili esperimenti sul cervello umano tenuti nascosti dal direttore Cawley (Ben Kingsley). Nel frattempo, le visioni del passato si fanno sempre più insistenti…

Per i primi 90 minuti di film (su 140), rifacendosi ai maestri dell’espressionismo e del noir anni quaranta – Lang, Siodmak, Turneur, Preminger, Fuller – Scorsese dipinge con maestria ineccepibile una fosca atmosfera da cinema d’altri tempi, piena di tensione e di mistero, di ombre e di complotti, fra suggestioni politiche (con echi del nazismo e del maccartismo) e parentesi oniriche di una certa suggestione. I problemi arrivano nell’ultima zoppicante mezz’ora, dove il film tenta di dare un senso all’intricata matassa di misteri e di visioni a cui abbiamo assistito. Difficile parlarne senza svelare troppo: basti dire che ci sono alcuni colpi di coda che, sullo stile di Fight club o Il sesto senso, ribaltano completamente la prospettiva precedente.

E’ in questa ultima fatidica mezzora finale che il film, letteralmente, crolla e dilapida quel carico di aspettative che aveva accumulato nel centinaio di minuti precedenti. Non tanto perché si tratta di un esito banale, prevedibile e già ampiamente sfruttato dai film sopraccitati e da altri ancora: ma perché non aggiunge nessuna profondità, nessuna luce e nessun senso ulteriore (si facciano i confronti con Mulholland Drive di David Lynch), configurandosi come un trucchetto fine a sé stesso, una manipolazione fatta apposta per suscitare il turbamento dello spettatore più ingenuo.

Ovviamente Shutter Island resta un film bello, ben recitato, magistralmente girato, con tutti i pregi dell’intrattenimento di altissima classe. Ma sempre di intrattenimento si tratta: curato e avvincente ma epidermico, che scivola via senza lasciare tracce profonde. Da uno come Martin Scorsese, sia pure in versione “commerciale”, è lecito aspettarsi come minimo qualcosa di più.