mercoledì 30 dicembre 2009

Quell'oscuro oggetto del desiderio (Cet obscure object du désir, Francia 1977) di Luis Bunuel

Ultimo film di Luis Bunuel, sceneggiato con Jean-Claude Carrière e tratto da un romanzo di Pierre Louys da cui già avevano attinto Von Sternberg (Capriccio spagnolo, 1935) e Duvivier (Femmina, 1959).

Ripulita dai cascami melodrammatici e decadenti, la storia della diabolica danzatrice di flamenco Conchita, che tiranneggia il ricco e maturo vedovo Don Mateo con la promessa sempre disattesa di concedergli la propria verginità, trova un'inaspettata consonanza con l’universo poetico del regista: come nel precedente Fascino discreto della borghesia il meccanismo si basa sulla reiterazione di un atto mancato, in questo caso il rapporto sessuale che la giovinetta continuamente rimanda “a dopodomani”.

L’ambientazione moderna, fra le bombe e gli attentati terroristici compiuti da un fantomatico “gruppo armato del bambin Gesù, è l’occasione per il vecchio regista di irridere un mondo divenuto ormai più assurdo di qualunque delirio surrealista. Il personaggio tipicamente bunueliano del vecchio hidalgo erotomane Mathieu (ineccepibile interpretazione del solito Fernando Rey), è emblema dell’immutabile destino umano alla sconfitta e alla frustrazione.

L’oggetto del desiderio, oltre che irraggiungibile, è oscuro perché inconoscibile. Il personaggio di Conchita è stato affidato (dopo il licenziamento di Maria Schneider) a due attrici dai tratti e dal temperamento opposti, la sanguigna Angela Molina e la più aristocratica Carole Bouquet: una felicissima intuizione che trasferisce sul piano visivo l’ambiguità del personaggio, e della realtà. La natura di Conchita resta indefinibile, ora santa ora puttana, e i nodi non vengono mai sciolti: è davvero vergine? Ama Mathieu o lo sta usando?

Disseminato di echi surrealisti, simboli, provocazioni, sberleffi (le secchiate d’acqua che aprono e chiudono il lungo flash-back centrale), Quell’oscuro oggetto del desiderio è leggibile in chiave psicanalitica (l’onnipresente simbologia sessuale), in chiave di irrisione antiborghese (frutto di una cultura materialista, Mathieu non riesce a stabilire con Conchita altro rapporto che non sia quello di possesso) o come allegoria dei rapporti umani (lo scontro fra i sessi cela il morboso desiderio di dominio l’uno sull’altro).

La ricchezza e la varietà dei livelli di lettura non pregiudicano peraltro il brio e la leggerezza di un film godibilissimo anche senza esasperati sforzi interpretativi. Lo stile terso, cristallino, elegantemente freddo (mai una sottolineatura di troppo, mai un eccesso d’enfasi) del Bunuel ultima maniera lo rendono anzi uno dei suoi film più trasparenti e intellegibili, sebbene non ai livelli (eccelsi) del Fascino.

Il finale è un’esplosione. Il vecchio surrealista anarchico non poteva trovare modo migliore per congedarsi (definitivamente) dal pubblico.

martedì 29 dicembre 2009

Tempesta su Washington (Advise and Consent, USA 1962) di Otto Preminger

Dramma fantapolitico tratto dal bestseller di Allen Drury e ben sceneggiato da Wendell Mayes, Tempesta su Washington è incentrato sulla furibonda lotta che si scatena nel Senato in seguito all’inaspettata candidatura presidenziale dell’intellettuale di sinistra Leffingwell sospettato di simpatie filocomuniste. Il gioco perverso di ricatti incrociati, manovre di corridoio e complicate macchinazioni ordite soprattutto dal senatore di destra Cooley avrà un finale inaspettato, ma anche conseguenze tragiche per un onesto senatore con qualche scheletro nell’armadio.

Alle prese con una trama complicata e fitta di personaggi, Preminger è riuscito bene a tenere in mano le redini dell’intreccio, confezionando un film molto teatrale e molto dialogato ma anche sorprendentemente solido e coinvolgente, centrato su un’inedita rappresentazione dei meccanismi del potere. Ricatti, arrivismo, intrighi di ogni genere sono gli elementi che dominano il quadro, descritti con una spregiudicatezza nuova per l’epoca, quando la piaga maccartista era ancora un ricordo vivo.

Il moralismo è tenuto abilmente a freno, ma dove vadano le simpatie del regista - fra il feroce anticomunismo di Cooley (Charles Laughton, istrionico e memorabile alla sua ultima interpretazione) e l’idealismo di Leffingwell (Henry Fonda nel suo solito personaggio di americano integerrimo e virtuoso) - è evidente: nell’America degli anni Sessanta non c’è più spazio per l’ottusa perseveranza di principi ormai usurati. L’operazione non si traduce comunque in una denuncia qualunquistica del sistema parlamentare. L’alternanza di vita pubblica e vita privata serve invece a sottolineare il peso della responsabilità individuale dei singoli personaggi, ognuno dei quali perfettamente descritto nel suo contesto e caratterizzato a tutto tondo: il merito è anche delle splendide prestazioni degli attori, fra i quali, oltre a Laughton e Fonda, c’è da segnalare la sempre bellissima Gene Tierney nel ruolo della senatrice Harrison.

Tempesta su Washington ha anche un ruolo importante nella storia del rapporto fra cinema e costume sessuale. Insieme a Quelle due, girato lo stesso anno da William Wyler, è il primo film hollywoodiano nel quale viene trattata esplicitamente la tematica omosessuale (ci sono delle scene ambientate addirittura in un locale gay) e contribuì notevolmente a scardinare le regole oramai anacronistiche del famigerato Codice Hays.

domenica 27 dicembre 2009

Repulsione (Repulsion, Gb 1965) di Roman Polanski

C’è qualcosa che non va nel comportamento della bionda e bellissima estetista Carole Ledoux: vaga per le strade in stato semicatatonico, rimane immobile a fissare le crepe sui muri, ha un atteggiamento di totale fobia nei confronti degli uomini e del sesso. Dopo che la sorella Helene è partita per una vacanza insieme al fidanzato, lasciandola sola nell’appartamento che dividono insieme, qualcosa nell’equilibrio psichico di Carole si rompe definitivamente: in preda a spaventose allucinazioni, si barrica in casa e uccide qualunque uomo che, bendisposto o no, tenta di avvicinarsi a lei.

Insieme a Repulsione di solito si citano altri due film di Polanski, Rosemary’s baby e L’inquilino del terzo piano, accomunati dall’ambientazione claustrofobica (si parla di “trilogia dell’appartamento”) e dalle medesime atmosfere opprimenti e angosciose. Per la verità ho trovato le somiglianze piuttosto vaghe: se Rosemary è uno straordinario racconto dell’orrore e L’inquilino un grottesco kafkiano, Repulsione è soprattutto uno scavo psicologico su una personalità schizoide, con molti lampi visionari (ma le allucinazioni sono quasi sempre riconoscibili come tali), ma anche con un’accuratezza quasi da manuale clinico.

Il film, prima collaborazione nel lungometraggio fra Polanski e Gerard Brach, rivisto oggi mi è sembrato un po’ troppo lento e prevedibile, nonché sostanzialmente privo di quelle ambiguità che solitamente si attribuiscono alla poetica del regista polacco: ma è anche vero che lo svolgimento monotono e lineare contribuisce a dare maggiore risalto ai momenti più macabri e allucinati che costellano la pellicola e che arrivano quasi sempre all’improvviso, accompagnati dagli accordi dissonanti dell’efficacissima colonna sonora di Chico Hamilton.

Proprio il trattamento sonore risulta uno degli elementi più notevoli del film: se i dialoghi sono decisamente pochi (nella seconda parte, quasi nulli), grandissima attenzione è riservata al “suono del silenzio”, a quella patina acustica ossessiva fatta di ticchettii, ronzii, campane e campanelli che accompagna la progressiva discesa della protagonista negli inferi della propria psiche. Coerentemente, anche l’apparato visivo si concentra sull’estremizzazione dei dettagli, sui tanti oggetti (foto, utensili, telefoni, cibarie, crepe…) che lo sguardo della protagonista carica di significato e che rappresentano come tanti tasselli del paesaggio psichico di Carole: paesaggio che noi osserviamo dal di fuori (sono rare le soggettive), e che il regista non trascura di calare in un contesto oggettivo, “esterno”, trattato in maniera ancora naturalistica ma che in certi momenti sembra già presagire l’universo grottesco e deformato dei suoi film futuri.

Soprattutto nei momenti allucinatori, è poi chiara l’influenza esercitata su Polanski dal surrealismo (la persistente e diffusa simbologia sessuale, la carogna del coniglio divorata dagli insetti) e dal cinema di Jean Cocteau (le braccia che escono dai muri).

Di fatto, Repulsione è un film pieno di intuizioni e di geniali novità, ma Polanski riuscirà a raggiungere traguardi più alti quando le integrerà con una trama vera e propria (Rosemary’s baby, il capolavoro) o una più convinta accentuazione del grottesco (L’inquilino del terzo piano).