giovedì 13 agosto 2009

Colazione da Tiffany (Breakfast at Tiffany's, USA 1961) di Blake Edwards

Un film-mito nato dall’incontro fra grandi personalità – Blake Edwards giovane ma già promettente regista, Truman Capote autore dell’omonimo romanzo ispiratore, George Axelrod sceneggiatore, Henry Mancini artefice del celeberrimo leitmotiv Moon River – ma dominato in tutto e per tutto da un’attrice divenuta presenza indelebile del nostro immaginario collettivo. Per lo spettatore odierno è lei, Audrey, a conferire senso e necessità a questo film diseguale e altalenante, in curioso e precario equilibrio fra i tipici cliché della commedia hollywoodiana coeva e certi slanci di sottile e inquieto disagio che si devono all’influenza (sia pure limitatissima) di Capote e all’indole satirica di Edwards, che solo negli anni a venire avrà modo di esprimersi a pieno. Con Wyler, Wilder, Cukor, Donen la Hepburn ha fatto commedie migliori o altrettanto celebri di questa, eppure è al personaggio di Holly Golightly che dobbiamo l’ingresso dell’attrice nel novero delle leggende cinematografiche. Audrey ha conferito a Holly un insieme di eleganza, dolcezza, ingenuità ed eccentricità che hanno fatto storia, creando un vero e proprio “stile Hepburn” che ancora oggi resiste imperterrito al susseguirsi delle mode. Che si può dire di un film che deve tutta la sua importanza all’interpretazione (o alla semplice presenza), di un’attrice-mito?
Assai tradizionale nello svolgimento e nelle dinamiche, Colazione da Tiffany è la riduzione ammorbidita e accomodante di un romanzo che all’epoca presentava tematiche certamente troppo scomode per Hollywood. Svaniti certi riferimenti scabrosi (la bisessualità di Holly), svaniti certi snodi narrativi, svanito il finale non accomodante, la commedia sentimentale abilmente diretta da Edwards (con l’apporto fondamentale della musica di Henry Mancini) si accomoda spesso e volentieri sulle convenzioni del genere: eppure permane un qualcosa di aspro, un fondo cinico e disincantato. Se le rispettive solitudini di Holly e Paul saranno destinato a incontrarsi nel romanticissimo finale (con tanto di bacio sotto la pioggia e struggente musica di violini), restano comunque impresse nella memoria la descrizione sarcastica dello sfavillante e meschino universo metropolitano, dove la logica economica regola anche i rapporti personali (entrambi i protagonisti, in un modo o nell’altro, si prostituiscono); e la rappresentazione di un personaggio femminile complesso e anticonformista, fragile e nevrotico, in precario equilibrio fra l’euforia più ingenua e periodiche crisi depressive (“paturnie”), che sembra aver posto la ricerca della propria libertà (anche economica) come irrinunciabile fondamentale dell’esistenza.

mercoledì 12 agosto 2009

Strade perdute (Lost Highway, USA/Francia 1997) di David Lynch

I film di Lynch si aprono spesso su immagini di texture in movimento. Le sostanze e materie che fanno da sfondo ai titoli di testa (le sabbia del deserto in Dune, il morbido drappeggio di velluto in Velluto blu, i fumi di Elephant man…) servono ad introdurre toni e atmosfere. Nel caso di Strade perdute costituiscono anche una visualizzazione simbolica del suo significato profondo. La soggettiva sulla strada notturna in movimento, con la linea gialla esattamente al centro della schermo, è una memorabile raffigurazione di quel celebre nastro di Moebius con cui quasi tutti i critici hanno voluto identificare la struttura della pellicola: una fuga senza via d’uscita, un eterno percorrere la stessa strada in un percorso che sembra rettilineo ma in realtà è circolare (l’inizio e la fine sono gli stessi, scanditi entrambi dalla frase “Dick Laurent is dead” pronunciata al citofono del protagonista da… sé stesso). Difatti, Strade perdute altro non è che la messa in scena della fuga mentale del protagonista dalla propria identità.
Il film di David Lynch più nero e oscuro si presta solo in parte al gioco delle interpretazioni “razionali” che permettono di decifrare con una certa precisione le sciarade narrative dei suoi film più recenti. Se l’impianto di base è abbastanza comprensibile (tutto parte dall’omicidio della moglie fedifraga da parte dello psicopatico Fred Madison: qui c’è un’interessane spiegazione elaborata alla luce delle psicanalisi freudiana), le zone d’ombra che permangono sono numerose, e certi interrogativi (che rapporto c’è davvero fra Fred Madison e Pete Dayton? Cos’è successo “quella famosa notte”? Chi è l’uomo misterioso?) sono destinati a restare senza risposta. Rispetto a Mulholland Drive, che evidentemente era stato congegnato “anche” per essere risolto e interpretato, Strade perdute mantiene un più marcato margine di mistero e di indeterminatezza. Ma è un’altra la differenza sostanziale rispetto al “gemello” cui viene solitamente accoppiato. Al di là dei facili elementi esteriori che li accomunano (trama divisa a metà, personaggi che ritornano in una doppia veste, utilizzo di atmosfere e stilemi da vecchio noir, oltre ovviamente all’incomprensibilità del tutto…), Mulholland Drive presenta tutta una serie di componenti emozionali, sentimentali e melodrammatici che in Strade perdute sono assenti.
Come ha notato il più acuto studioso di Lynch, Michel Chion, Strade perdute è un film “maschile”, non solo perché tutto girato dal punto di vista di uomini, ma perché sono assenti quelle scene di lacrime o di “amore mistico” (parole di Chion) che costituiscono una parte fondamentale della poetica lynchiana, benché spesso i critici più superficiali se ne dimentichino (quando è ovvio che solo uno spirito genuinamente emotivo avrebbe potuto realizzare opere come Elephant man, Twin Peaks o lo stesso Eraserhead…).
Strade perdute è un film “freddo”, estremamente complesso e composito – basti vedere la differenza fra l’atmosfera sospesa della prima parte e quella più vivace e colorita della seconda parte – ma privo degli slanci emotivi che caratterizzano tanta produzione lynchiana. Se Mulholland Drive è la fantasticheria di una donna che nel sogno sublima il suo amore tragico e frustrato, le sue aspirazioni deluse, i suoi sogni infranti sullo sfondo della magica e crudele Hollywood, Strade perdute invece è l’oscura, disperata e frenetica fuga dalla realtà da parte di un assassino schizofrenico, dove l’elemento femminile – la conturbante Renée/Alice – non porta con sé nulla di sentimentale, ma diventa una rappresentazione, fortemente accentuata nei suoi elementi più platealmente erotici, di una femminilità impossibile da possedere, capace di scatenare desiderio frustrato e impotenza. “Tu non mi avrai mai” sono le ultime parole sussurrate da Alice a Pete, ed è probabilmente l’impotenza ad aver scatenato la furia omicida di Fred nei confronti della fedifraga Renée…
Strade perdute forse non è bello quanto Mulholland Drive, non ha un respiro così maestoso ed è più grezzo e diseguale nella costruzione, eppure riesce lo stesso nel miracolo di parlare allo spettatore a un livello più profondo di quello razionale, perlomeno nello spettatore che ha il coraggio di lasciarsi trascinare negli angoli bui di un puzzle surreale e affascinante. E la prima parte, con la sua atmosfera di paura inafferrabile, fatta di dialoghi rallentati, apparizioni enigmatiche, misteriose dissolvenze, è una delle punte più alte del cinema di Lynch, di certo il regista che più di ogni altro riesce a filmare l’oscurità e il mistero.